Il fronte nucleare è quello che più preoccupa, ma si profila un altro punto di scontro non meno devastante, ed è la guerra tecnologica sulle forniture di microchip.
Il fronte nucleare è indubbiamente quello che fa più paura in un clima di tensione che potrebbe degenerare rapidamente, se a qualcuno scappa il dito sul grilletto. Ma si profila un altro punto di scontro non meno devastante, ed è la guerra tecnologica.
Taiwan, come già si è detto, ha annunciato il boicottaggio delle aziende russe per la fornitura di microchip. Stiamo parlando di quelle unità intelligenti che collegano e attivano ogni tipo di dispositivo digitale, fino ai più complessi apparati di intelligenza artificiale. Un blocco delle forniture paralizzerebbe i segmenti più sofisticati dell’intero sistema industriale e militare di Putin. La decisione di Taiwan però rischia di comportare due conseguenze che sarebbero difficilmente controllabili. La prima, geografica, che ripropone il nodo dell’isola autonoma rispetto alle rivendicazioni della repubblica cinese. La seconda, economica e tecnologica che renderebbe visibile e vincolante il controllo americano sull’intero mercato dei microchip, spingendo la stessa Cina in una situazione imbarazzante.
Infatti Taiwan applicherebbe, nel caso procedesse con la sua determinazione nel boicottare le forniture a Mosca, la decisione del governo americano di qualche mese fa di sospendere ogni esportazione in Russia di materiali tecnologicamente sofisticati: non solo prodotti direttamente da aziende statunitensi, ma anche realizzati da imprese di altri paesi su licenza o accordi con progettisti americani.
Un embargo che toccherebbe la quasi totalità di certe tipologie di microchip indispensabili per le nuove attrezzature militari. Parte di questi microchip per altro sono sviluppati in Cina o industrialmente prodotti da aziende di Pechino. Un vincolo che irrigidirebbe l’intero scenario di semilavorati connessi alle piattaforme digitali.
Robert Atkinson, presidente del think tank Information Technology and Innovation Foundation, ha rivelato che un’azienda italiana che fa affidamento sui chip statunitensi per le sue macchine, sta valutando la possibilità di sostituire i prodotti che sono protetti dal copyright statunitense. Una reazione a catena che potrebbe rivelarsi un boomerang persino nel cuore dell’occidente.
Come per le sanzioni finanziarie, spiega ancora Atkinson, il boicottaggio dei chip “è un grande bastone che possiamo schierare per far pensare due volte Putin ma anche gli altri soggetti del mercato penserebbero due volte”.
Tanto più nel pieno della tensione prodotta dalla guerra d’invasione dell’Ucraina, in cui la decisione americana di bloccare tutto il flusso verso la Russia produrrebbe anche una torsione geopolitica di grandi conseguenze, costringerebbe le autorità cinesi a doversi schierare in maniera radicale, ammettendo per altro la propria ancora prolungata subordinazione alle tecnologie americane.
Già qualche giorno fa un portavoce dell’ambasciata cinese negli Usa ha dichiarato al Washington Post che il suo paese “è contrario alla politica del braccio lungo sulle scelte di altri paesi“, facendo intendere che non è certo questo il momento per saggiare la collaborazione indiscriminata della Cina con le strategie americane.
Comunque già solo aver ventilato quest’opzione modifica lo scenario e i comportamenti dei global player del mercato digitale. Come la crisi di rifornimenti che nei mesi scorsi aveva rallentato interi comparti industriali in tutto il mondo già spingeva in questa direzione, ora la pressione americana sta rendendo inevitabile che come per il gas anche sui microchip e le tecnologie più essenziali per i sistemi tecnologici si impongano strategie di auto sufficienza regionale, allentando quelle forme di integrazione e collaborazione che avevano contrassegnato la fase di sviluppo del mercato globale.